MILANO. Il prossimo passo è fissato per lunedì. È la data entro cui le forze politiche potranno depositare in Commissione Finanze del Senato subemendamenti alle modifiche con cui i due relatori, Fausto Orsomarso (Fratelli d’Italia) e Dario Damiani (Forza Italia), hanno provato a fare «una sintesi», la definisce Damiani, del lavoro fin qui compiuto sul disegno di legge «Interventi a sostegno della competitività dei capitali». Il punto centrale della questione riguarda l’articolo 12 bis che nella prima formulazione del progetto – a firma del ministro dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, ma della cui stesura si è occupato il sottosegretario, sempre del partito di Salvini, Federico Freni – nemmeno compariva. La questione è quella della lista del cda e rischia di avere impatti non indifferenti sul capitalismo italiano.

In Parlamento già dagli emendamenti agostani si è visto che c’è un fronte trasversale che va da FdI a Forza Italia e Lega ma anche al Movimento 5 Stelle, che vuole porre paletti molto stringenti ai manager. In parte le proposte ricalcano quanto già accade all’estero, come sul voto da esprimere non solo sulla lista nella sua interezza (come accade ora) ma anche sui singoli candidati, che per questo devono essere presentati in numero «pari al doppio» di quello «dei componenti da eleggere». Punti sensibili delle modifiche indicate riguardano i quattro quinti dei voti necessari in cda per promuovere la lista dei candidati per così dire “interni”, così come l’iscrizione a parti correlate degli azionisti con più dello 0,5% del capitale. Poi c’è la questione della composizione del consiglio. Nel caso le liste di minoranza raccolgano più del 20%, la lista del cda non potrebbe esprimere più della metà più uno dei componenti del consiglio. Mentre l’emendamento avrebbe avuto un assenso informale di Palazzo Chigi, al ministero dell’Economia starebbero portando avanti ragionamenti per alcune limature.

L’opposizione sul punto è critica. «Siamo davanti a un elefante in cristalleria: si rischia di rendere ingovernabili tutta una serie di cda – dice Antonio Misiani, responsabile economia e finanze del Pd –. Così com’è, appare un intervento asistematico in una materia delicata. Il ddl nasce per introdurre miglioramenti, come sul voto maggiorato, che evitino la fuga delle società in Olanda. Ma occorre attenzione, evitando di costruire norme controproducenti. L’emendamento ci pare una forzatura». Ora toccherà al Mef, con cui non c’è ancora stato un confronto, dire la sua. Dopo un passaggio in Commissione Bilancio, inizierà la discussione in Commissione Finanze in sede referente.

In ballo c’è il futuro assetto del capitalismo italiano dove da mesi va in onda lo scontro tra azionisti e manager. Alle Generali, per esempio, si voterà nel 2025, anno in cui è previsto che la nuova legge produca i suoi effetti. Già un anno fa Caltagirone, senza successo, ha contrapposto una propria lista a quella proposta dal cda del Leone. In questi giorni tiene banco il caso Mediobanca. In questo caso Delfin, la finanziaria della famiglia Del Vecchio, ha provato a trattare con Mediobanca per trovare un terreno comune per l’ingresso di alcuni propri rappresentanti nella lista che il cda di Piazzetta Cuccia sta approntando. Delfin, primo azionista col 19,8%, vuole però un presidente condiviso (si parla di nomi quali Vittorio Grilli, Flavio Valeri, Fabrizio Palenzona), ma il cda di Mediobanca, richiamando la propria indipendenza, punta a confermare Renato Pagliaro. Anche a costo, come probabile, di un nuovo scontro in assemblea, dove Delfin si prepara a presentare una lista di minoranza ma che potrebbe arrivare a 5-7 candidati. —