Superare la conflittualità tra lo Stato e le Regioni e favorire la leale collaborazione tra le istituzioni nazionali e locali. E’ questo uno degli obiettivi più importanti della riforma costituzionale che sarà sottoposta agli elettori il 4 dicembre.
A quindici anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione, i rapporti tra lo Stato e le Regioni sono caratterizzati da una litigiosità senza precedenti: dal 2002 ad oggi lo Stato o le Regioni hanno presentato alla Corte costituzionale oltre 1.600 ricorsi per conflitti di competenza (una media di 2 ogni settimana!), intasando la consulta a tal punto che oggi quasi metà del lavoro dei giudici costituzionali viene impiegato per tentare di dirimere i conflitti tra il governo e le amministrazioni regionali.
La principale radice di questo contrasto infinito è l’incertezza su “chi deve fare che cosa” per le materie affidate alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni.
Si tratta di temi di grande importanza – dalle infrastrutture di interesse nazionale alla tutela e sicurezza del lavoro, dalla previdenza integrativa al commercio con l’estero, fino alla produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia – su cui attualmente possono legiferare sia lo Stato che le Regioni.
La scommessa della riforma del 2001 era un federalismo fondato sulla cooperazione.
Purtroppo, le cose sono andate assai diversamente, con effetti che sono sotto gli occhi di tutti: ricorsi su ricorsi, tempi biblici per le decisioni, danni misurabili in decine di miliardi di euro tra ritardi, occasioni mancate, progetti rimasti nei cassetti.
La riforma costituzionale del 2016 punta a superare questa situazione attraverso tre grandi scelte:
1) rimettere ordine nelle competenze legislative statali e regionali, eliminando la competenza concorrente, redistribuendo in modo più chiaro i poteri tra Stato e Regioni, introducendo una clausola di supremazia simile a quella prevista in tutti gli ordinamenti regionali o federali;
2) trasformare il Senato in una camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, composta da consiglieri regionali e sindaci;
3) rafforzare la possibilità per le Regioni (purché abbiano i conti in ordine!) di vedersi attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia su una serie di materie di competenza statale.
In poche parole: una ripartizione più razionale delle competenze legislative; la possibilità per i territori di concorrere attraverso il nuovo Senato alla formazione delle leggi nazionali; la possibilità, per le Regioni virtuose, di avere più autonomia.
E’ “una riforma centralista che umilia gli enti locali”, come sostengono gli esponenti di Lega e Forza Italia? Difficile sostenerlo, se si guarda al merito mettendo da parte la propaganda. Del resto, questo è il governo che ha cancellato il patto di stabilità interno, ha chiuso con i tagli ai comuni, è passato dalle parole ai fatti sui fabbisogni standard e sta rilanciando gli investimenti locali.
Per gli amministratori regionali e comunali è sicuramente una sfida, questo sì: passare dal “sindacalismo di territorio”, tanto rivendicativo quanto spesso inconcludente, ad un regionalismo maturo, più focalizzato sui temi di interesse realmente territoriale e più capace di fare valere le proprie ragioni direttamente a Roma, nel Parlamento nazionale. Tutto questo senza sacrificare il confronto e la concertazione tra lo Stato e le autonomie, che rimarrà a partire dalle grandi infrastrutture. Ciò che verrà meno – se la riforma sarà approvata dagli elettori – sarà invece il potere di veto pregiudiziale che troppe volte ha rallentato o bloccato iniziative e progetti importanti per il futuro del Paese.